giovedì 3 agosto 2017

D'imparare a partire - leggeri.





Partiamo dal finale, da questo borsone verde Noth Face impermeabile, cm 50x30: il mio bagaglio a mano per i prossimi 21 giorni di vacanze. O forse potrei partire da un’immagine bellissima con sui se ne usci la mia amica e sorella d’anima Giulia – stavamo parlando delle Lezioni Americane di Calvino:

«Non saprei come spiegare, prova a immaginare la nostra vita come una splendida nevicata, leggera e rilassata, ecco forse vivi per davvero quando senza paura afferri il fiocco di neve che non t’aspettavi, quando tieni i palmi aperti verso il cielo e in cuor tuo sei sicuro che il cristallo giusto andrà a sciogliersi esattamente al centro di essi»

Milano, lunedì mattina di inizio luglio, temperatura percepita attorno ai 40°.
Sono seduta tra le pile di scatoloni dei miei due contemporanei traslochi, scarto un pacco Amazon Prime: direttamente da ordine nottetempo è approdato alla mia scrivania “Solo bagaglio a mano” o la classica stronzata che le persone vogliono leggere all’aeroporto [pagina 11: in una vita media di ottant’anni, siamo destinati a 46 ore di felicità e ne passiamo -chi? Fuori i nomi!- 18 a fare il nodo alla cravatta].

Poi il libro me lo sono letta oltre la pagina 11, e tutto d’un fiato. L’ho sottolineato e postillato all’inversimile, l’ha comprato anche la Giulia di cui sopra e ne ho già regalate almeno tre copie.

C’è un verbo greco, omerico e poi ripreso da Foscolo, che amo particolarmente: ezomai. Significa stare fermi da qualche parte ma con tutta l’energia dentro; senza che i due movimenti, il consistere e lo stare, entrino in conflitto. Il bagaglio a mano è la versione 2017 di questo verbo: due direzioni opposte che si incontrano nei 65 l di una Rinowa Salsa Air (per il mio compleanno, in azzurro, grazie). Lo stare, nel libro di Romagnoli, ha una direzione verticale, di introspezione: è il momento della scelta di cosa portare con sé, la cernita, eliminare ciò che nella nostra vita esorbita: non sono radici, ma zavorre.

Si parla anche di traslochi. Negli ultimi otto anni ho traslocato sette volte, di cui le ultime due a distanza di neppure undici mesi. Quanto è vero che con il tempo impari a selezionare, a portare dietro solo ciò che conta. Sarà che ho una memoria, nel bene e nel male, quasi infallibile ma sono sempre stata una collezionista dei fantomatici pezzetti di matita gialla. Ho rinvenuto souvenir improponibili, evidenziatori scarichi dagli ultimi esami, scontrini stinti, biglietti aerei illeggibili.  La cara vecchia trappola del “non lo uso mai ma è un ricordo”, micidiale nel capitolo guardaroba: il tubino - non rosso, ma si badi- tangerine, come la canzone dei Led Zeppelin che mi fu dedicata, le magliette a righe stinte accumulate in Francia, le Stan Smith bucate, il vestito anni ’30 di paillettes dorate [ok, quello l’ho conservato].
 
Una delle dichiarazioni d’amore più belle di tutti i tempi è la più scarna ed essenziale che ci sia:
Sono io! Sono me!” - Alekos Panagoulis a Oriana Fallaci.

Cresciuta nel mondo ovattato delle biblioteche,ho imparato a confrontarmi con un ambiente che richiede continuamente la versione marketing di noi stessi: aggiungere il tacco, il trucco, le frasi fatte convenzionali. Apparire è un’aggiunta, e una difesa. Banalmente, i tacchi erano diffusi tra i macellai per sollevarsi sulle carcasse degli animali macinati; circa mille anni dopo sono il modo per me – timiderrima-  di prendere le distanze, sembrare più alta e più grande.


«Realizzare la sineddoche di noi stessi è un obiettivo virtuoso. Significa non identificarsi attraverso una molteplicità si segni, oggetti, valori ma tendere a uno […]: essere, non ingombrare». (p.73)


Essere è un’arte della sottrazione.
Imparare a dire “Sono io! Sono me!” a sé stessi, prima che a qualcun altro.
Sono io, sono me.
[Giulia, Mot per gli amici, Giulietta per pochi, selezionati, intimi.
Indosso camicie da uomo, odio i tacchi, metto le gonne lunghe e ci inciampo dentro, non ho mai capito come si stenda l’ombretto. Sono una secchiona, precisa, memorizzo tutto e poi perdo in continuazione le chiavi di casa. Ho un massimale di 80 kg di deadlift ma non so leggere le mappe di Google Maps. Amo le albe, l’azzurro e i rooftop, odio gli apericena (che mi spiegassero poi, che termine è, apericena), non ho il kindle, non so guidare il motorino. Adoro il latte di mandorla, la granita siciliana vera, ho un debole per l’hummus e il babaganoush – e per chi sa pronunciarlo correttamente, aborro i croissant e gli yogurt gusto frutta].

Solo chi saprà scavare, capire e discernere potrà essere davvero leggero:

«Bagagli troppo pesanti ci inducono a scegliere percorsi più facili per non faticare troppo. Amiamo il segno più e il segno meno ci spaventa, eppure è un verbo da coniugare con esultanza» .(p. 68)

Questa leggerezza, si badi, non è superficialità, ma piuttosto quel "planare sulle cose dall’alto” di cui parla Calvino nell’apertura delle Lezioni, rimarcata citando un verso di Paul Valery: “Il faut être léger comme l'oiseau, et non comme la plume".
L’eroe della leggerezza è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo unico eroe capace di tagliare la testa pietrificatrice della Medusa. La pietra è il peso a cui è condannato il regno dell’umano, per fronteggiare il quale occorre «cambiare approccio, guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica»:


«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite»

Oltre vent’anni dopo, questo augurio di Calvino ancora riecheggia nel ritratto della futura, rivoluzionaria, nuova generazione di viaggiatori con il bagaglio a mano «capace di scegliere la libertà […], disancorata da suolo e dal tempo. In sintonia piena e pure con l’esistenza».

Così, impariamo ad essere leggersi, agili, pronti a muoverci, nell’unica direzione in cui è consentito guardare: avanti. Siamo funamboli, sulla corda.
Ezomai. “Stare per avanzare”: un viaggio non si esaurisce nella preparazione di un bagaglio più o meno pesante, occorre saltare sul cavo. Il cavo è la vita nella sua più nuda evidenza: sobria, rude, scoraggiante. Questa è la prima lezione dal Trattato di Philippe Petit:

«Tutto è diverso ora che il filo è là. Puntate lo sguardo all’estremità, il traguardo e tentate una traversata. La traversata sarà una successione di equilibri: su un piede, poi sull’altro.  (p. 38).

Il funambolismo – lo ricorda Paul Auster nella sua bellissima Prefazione - non è un’arte della morte, «è un’arte della vita, è un modo di affrontare la propria vita, nell’angolo più oscuro e segreto di sé stessi»
Il passo leggiadro del funambolo, che sul filo cammina dritto puntando alle stelle, ignorando il baratro attorno, è una delle più straordinarie metafore di leggerezza: solo fronteggiando i nostri mostri, riusciremo ad essere dei veri eroi. Nell’antichità, lo sciamano rispondeva alle minacce per la sua tribù con riti magici, che lo facessero levitare oltre l’umano. Nel finale della sua Lezione, Calvino cita il Cavaliere del secchio di Kafka, cavaliere errante che compie il proprio volo magico «al semplice dondolio di un secchio vuoto, segno di privazione e di desiderio e di ricerca».

Così, in quei torridi 40° milanesi mi sono ritrovata a pensare alla famosa nevicata, leggendo il mio libretto arancione.
Ehi Giuli, ci hai mai pensato?"
La verità è che avevo sempre attribuito la leggerezza alla neve, elemento impalpabile ed effimero per antonomasia. Invece la leggerezza non è della neve, è dei nostri palmi; possiamo sentire il fiocco di neve solo se abbiamo le mani aperte per farlo.  
Se il secchio fosse pieno, non gli permetterebbe di volare.

E, dopo essersi posato, come tutti i fiocchi di neve, anche il nostro fiocco perfetto si scioglierà lasciando il vuoto. Conta solo quel che potrà ancora essere.

Così, leggeri, continuiamo ad avanzare con i nostri secchi vuoti, con le nostre mani aperte, e che siano tramonti, albe, tempeste di neve da attraversare, senza malinconia.





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I. Calvino, Lezioni Americane, Milano, Mondadori, 2011
P. Petit, Trattato di Funambolismo, Milano, Ponte alle Grazie, 2015
G. Romagnoli, Solo bagaglio a mano, Milano, Feltrinelli, 2015