sabato 24 novembre 2018

Villa Medici e Catherine: la bellezza sopravvivente.


[Il 7 gennaio 2015 i colleghi e amici di Catherine Meurisse, da dieci anni nella redazione di «Charlie Hebdo», vengono assassinati da terroristi islamici. Quella mattina Catherine arriva al lavoro in ritardo, per un banale contrattempo. E si salva. Dopo quella tragedia e lo choc ulteriore degli attentati nel successivo novembre, si mette alla ricerca di ciò che può opporsi al caos: la bellezza. Sceglie Villa Medici a Roma, il Louvre, l'oceano. Ne è nato una graphic novel, delicata come solo un libro intolato “La leggerezza” può essere ]

13 novembre 2018, la mia prima visita a Villa Medici. Faccio i controlli di sicurezza, è territorio sotto la giurisdizione francese “Signorina, scusi ma oggi i controlli sono intensificati, è l’anniversario della strage di Parigi”.

E’ una data stampata, una di quelle per cui saprò sempre rispondere “Cosa stavi facendo?”
 
13 novembre 2015, stavo atterrando a Las Vegas, diversi fusi orari più in là. Viaggiavo per lavoro insieme ai miei colleghi. Sono stata la prima ad accendere il Blackberry all’atterraggio, avevamo un centinaio di ospiti sul volo ed io dovevo chiamare l’autista per i nostri transfer. La prima cosa che lessi fu il Whatapp di mia sorella e via via i continui messaggi che arrivavano sulla chat del mio gruppo di amici dell’Erasmus in Francia.

Marco, merda, c’è un attentato kamikaze in corso a Parigi!”
L’11 settembre eravamo ancora troppi piccoli. Cosa stavi facendo? Merenda, e quando accesi la tv la prima sensazione era stata quella che al posto dei cartoni animati stessero trasmettendo un film di fantascienza.

Quel 13 novembre era reale, era paura palpabile via doppia spunta blu di WhatApp: “Avete notizie di Patito? Di Cami? E Davide?” Non c’entravano Manhattan, i grattacieli, era nei nostri posti che si moriva: a un concerto, tra i tavoli tondi dei bistrot francesi. Ricordo distintamente la coda interminabile dei controlli di sicurezza in aeroporto, gli sguardi chini sui cellulari. Nella concitazione di scendere dall’aereo avevo dimenticato gli orrendi calzettoni da viaggio, spuntavo le liste passeggeri, mentre mi aggrappavo furtivamente al braccio di Marco.

Che poi è la difesa più istintiva di fronte alla paura. Cercare un appiglio, attaccarsi a qualcosa.

Abbracciami”

Novembre, 2017 – canta Cesare Cremonini da tutte le radio, è uno quei ritornelli che s’insinuano, restano lì.  Va a ripetizione nella hall del mio hotel. È buio, fa freddo, anche a Roma, io ho solo il cappotto leggero. Non ci sono taxi nel raggio di km. Attraverso piazza di Pietra, mi fermo davanti al Pantheon deserto. Niente turisti, niente gladiatori, niente carretti. Ci sono la luna e il silenzio: bellezza che calma e colma.

Abbracciami. Anche quando poi saremo stanchi.
 
Je suis Charlie Hebdo, era l’urlo di piazza dei giorni della strage.
Je suis Catherine.
Siamo tutti Catherine: umani di fronte alla paura, alla rabbia, al dolore, cerchiamo una Villa Medici, una montagna o un oceano dove rifugiarci al riparto dalla violenza del mondo.   C’è una pagina in cui una sera degli ospiti dell’Accademia suona la Ciaccona di Bach; è il momento che segna l’inizio della guarigione di Catherine «il sole tramonta e l’inverno con lui».   Non riesco a immaginare un baluardo più compiuto contro la barbarie di questo, dello scivolare di un’alba romana vista dal giardino lassù, delle note nelle Variazioni Goldberg che risuonano nella spirale perfetta delle scale, della luce tra i calchi in gesso negli ateliers d’artista.

La bellezza di Villa Medici è una bellezza sofferente, sopravvivente alle sovrapposizioni della storia e dei poteri. Allegria di naufragi.

Il pittore Balthus rifece gli intonaci degli appartamenti medicei strofinandoli con i cocci di vetro – sfregio e infiniti giochi di luce dalle microscopiche schegge rimaste nella vernice. Il gruppo di statue che sempre Balthus volle creare nel giardino non racconta idilliaci amori di Ninfe ma la strage dei Niobidi: fissata nel cemento c’è una storia di gratuità crudeltà e sopraffazione, e le lacrime di dolore di una madre che diventano sorgente, irrigando la vita che si perpetua dalle strage, nonostante la strage. Il dopo che sarà – che cercava Catherine.
 
La visita agli appartamenti finisce con La chambre des amors: era una delle stanze del cardinale Ferdinando de’ Medici, sontuosamente decorata con soffitti e fregi dipinti da Jacopo Zucchi.
Nel XVIII secolo i pannelli e fregi furono distrutti dal fanatismo di Cosimo III, che, giudicandoli osceni, li fece bruciare. Da allora la stanza è rimasta con i muri nudi e il soffitto a cassettoni sprovvisto delle tele dipinte sostituite da semplici pannelli di legno, cicatrici di vuoto sul soffitto ornato.

Durante il restauro del 2011-2012, l’Accademia di Francia invitò l’artista italiano Claudio Parmiggiani a ricreare le sette tavole del soffitto. Claudio usò la tecnica chiamata delocazione: gli oggetti dopo essere stati esposti all’azione del fuoco, vengono prelevati e della loro forma rimane solo l’impronta lasciata dalla fuliggine. Come oggetto per la chambre scelse quella che era la firma originale dell’artista: un volo di farfalle.

La bellezza convive con le nostre fragilità, è la polvere del kitsugi dorato che rinsalda i punti spezzati: trasforma il vuoto in evanescente, ali di farfalle che s’alzano dalla cenere.

[Un uomo con i guanti rossi che di mercoledi a mezzogiorno riempie Piazza Navona di bolle di sapone]

martedì 11 settembre 2018

La felicità - dei numeri primi.


E’ stato un weekend particolare per me. Ha inaugurato il conto alla rovescia all’ultimo mese prima dei fatidici trent’anni e segnato il passo con la prima notte in un posto di nuovo mio, dove poter riaprire gli undici scatoloni di libri e trovare un angolo soleggiato per le foglie del bonsai Mario-san – per ora mi basta così.

Sabato pomeriggio la mia amica Elena mi ha invitato ad accompagnarla a fare un video per il “Tempo delleDonne” del Corriere della Sera.  Il tema era “Felicità è fare il lavoro che ci piace?”

 Ho girato la domanda ad un’altra Elena, che nel giro di due secondi ha subito risposto: “Non solo. È essere ciò che sei: il lavoro può permettertelo oppure negartelo - “così come il rapporto di coppia” – ha aggiunto, visto che sì, mi conosce così bene da potersi permettere pure questa postilla.

Svuotando il mio vecchio appartamento, ho ritrovato due articoli che avevo ritagliato e messo da parte nella cesta dei giornali. Il primo è un editoriale di Gramellini, che commentava le domande dei test Invalsi nelle scuole elementari.  Sono stata una bambina fortunata: a dieci anni i miei genitori mi hanno lasciato libera di scrivere poesie, e insegnato ad amare le montagne. Credo che all’epoca volessi fare la cuoca scrittrice o qualcosa del genere.

Per quei curiosi sistemi di puntini che - briciole di Pollicino-  sembrano ricollegarci i percorsi delle nostre vite, l’articolo è datato domenica 12 maggio, che è stato in una vita intera –professionale e personale- il giorno più agli antipodi rispetto a quello che sognava la me decenne sdraiata a leggere a pancia in giù.
 O forse, paradossalmente, quello più vicino, in cui ho deciso di cercare che cosa vorrei essere e ancora non sono, per dirlo con le parole del secondo articolo della cesta, una riflessione sulle gerarchie e i modelli fissi del pensiero. Parte da Alcibiade e ci riporta all’elemento fondamentale di questa quete: il coraggio

Cerchiamo quello che ci manca per essere noi stessi. Capire chi siamo, quale è il nostro posto nel mondo, e il senso che vorremo dare alla nostra esistenza: lì è il desiderio profondo. Per questo il coraggio è così importante: ci vuole coraggio per cercare sé stessi, riconoscendosi nei propri limiti e difetti.

Quando dopo sei anni quest’inverno ho cambiato lavoro la stragrande maggioranza delle persone mi ha augurato “buona fortuna”. Decisamente, non ne ho avuta. Non solo non si è realizzata nessuna delle mie aspettative, ma mi sono trovata a lavorare in un mo(n)do che per me è quanto di più infelice ci possa essere. Preferisco ragionare nell’ottica del cambiamento, non della fortuna, come un grandangolo che abbia ampliato la visione, angoli d’ombra inclusi.

È stato imparare a gestire i fallimenti e le cose che non vanno precise, filate, perfette come vorremmo, anzi. Nessun cambiamento è isolato e neutrale, e senza quello non ne sarebbero venuti altri.  I francesi come formula d’augurio dicono “bon courage”: ogni cambiamento è un piccolo, grande atto di quel coraggio che punta –dovrebbe, almeno – alla felicità. 

Per me “coraggioso” è un aggettivo nuovo: non me lo ero mai concesso, neanche avevo mai pensato in qualche modo mi competesse. E’ arrivato la sera di inizio agosto in cui sono salita sulla terrazza della mia casetta di Malfa.  Scendeva la luce sulle falesie, lo Stromboli di fronte sfumacchiava, la nave cisterna stava gettando l’ancora a Scalo Galera. “Sei stata coraggiosa” - me lo sono detta tutto - all’improvviso.

C’è una differenza abissale tra il sentirsi soli e lo stare da soli: ci si può sentire soli anche in una coppia, in un gruppo, in una folla. Ci si sente soli se ci si sente – o ci si fa sentire - diversi.  
Stare da soli, invece, è il coraggio di imparare a declinarsi nel singolare nella propria unicità. Credo nella solitudine dei numeri primi, il custodire dentro un qualcosa forte abbastanza da essere divisibile solo per se stesso, aperto alla bellezza del mondo, ma che dal mondo non si lascia scindere.
Credo nei pezzi scompagnati, nelle serie che non tornano. 
 
 Ognuno singolarmente preso, dal piccolo angolo di spazio e di tempo che occupa, con le sue qualità e i suoi limiti: in fondo davanti alle sfide della vita, siamo allo stesso tempo uguali e diversi. Incompleti, tutti desideriamo: cerchiamo le stesse cose, un angolo di felicità; ma ognuno a modo proprio. Così, se vorremo evitare gli errori di Alcibiade - cedendo alle sirene dell’omologazione e del conformismo, condannandoci a una vita che non è nostra- dovremo prima di tutto imparare a riconoscerci nella nostra unicità e nelle nostre imperfezioni, il che a volte significa solitudine e a volte è la premessa per una comunanza più piena con chi ci sta intorno. Serve ai filosofi il coraggio, ma anche a tutti gli altri.

 
 
LINK AGLI ARTICOLI:
  • Il bambino azienda - M. Gramellini 12/05/2018
  • Il secondo articolo, dalla Lettura del 29/04/2018 è disponibile solo a pagamento su PressReader: qui