Iniziamo con una breve premessa sui
miei vizi&vezzi da lettrice.
Punto primo: la matita, per la postilla selvaggia. Non riesco a leggere
se non ho la certezza di una matita per sottolineare e postillare. L’ansia di
rimanere senza associata al mio disordine comporta lo spargimento di lapis mina
F ovunque: comodino, cesta dei libri in salotto, zainetto, borsa, trolley, e, just to be sure, quella di emergenza nella
custodia del pc.
Punto secondo: chiamiamolo fascino sottile dell’intertestualità. Per ogni
libro acquistato ce ne sono tot altri che inizio ad associare mentalmente, cercando
richiami e collegamenti da uno all’altro: la conseguenza concreta è che ad ogni
acquisto dal libraio di fiducia seguono almeno uno/due pacchi Amazon prime recapitati dal corriere in
ufficio che vanno ad impilarsi sul comodino insieme alle matite di cui sopra.
Ciò premesso, iniziamo a parlare
del primo gruppo di libri che si sono accumulati nei mesi scorsi, quelli che
definisco i miei comfort book nel
grigiore dell’inverno padano: i libri che parlano di isole.
I.) Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e
mai andrò, Judith Schalansky, Milano, Bompiani, 2013
II.) Pantelleria. L’ultima isola, Giosuè
Calasciura, Bari, Laterza, 2016
III.) Il mare di pietra, Eolie o i
7 luoghi dello spirito, Roma- Bari, Laterza, 2009
C’è in questi libri il ritorno all’infanzia, al gusto per l’esplorazione
prima di Google Earth: quando ero bambina e il mondo era una fantasia da creare
sdraiata a pancia in giù sul tappeto sfogliando l’atlante illustrato.
«Da piccoli tutti abbiamo vissuto su un’isola. Ogni caccia al
tesoro presuppone un’isola con campi, muretti a secco e viottoli su cui saltellare.
[…] Tutte le volte che guardi il cielo in attesa che arrivi qualcosa a portare
novità, si tengono i piedi su un’isola». (III, p.19)
In tutti e tre i volumi c’è una mappa, vengono riportati minuziosamente
dati tecnici e cartografici; la geografia fisica è al tempo stesso rimando alla
realtà e punto di partenza della scrittura: nel loro insieme, questi dati
scientifici creano una sorta di
enciclopedia-cornice. Da qui hanno origine i singoli racconti, non come
ampliamento di un discorso scientificamente provato, ma piuttosto come sviluppo
di una totale libertà immaginativa che trova la propria carica propulsiva nel
dato oggettivo.
Del resto questo procedimento creativo sembra suggerito dalla geografia
stesse delle isole: dal mare che ne costituisce il più perentorio dei confini,
e al tempo stesso le lascia così aperte alla possibilità dell’esplorazione,
dell’andare oltre.
«L’isola è una scrittura, agitata di
inchiostro magmatico raggelato in pantellereti e cossiriti […] Pantelleria è
un’isola per scrittori». (II, p. 15)
«Daniel Dafoe [..] aveva scoperto che il mare
è narrazione e che le isole sono sempre snodi di storie lunghissime. Defoe è il
primo romanziere e il primo romanziere di isole perché aveva intuito che tutte
le volte che si approda su un’isola si è dei naufraghi e il naufrago ha tutto
da raccontare». (III, p. 39)
Dopo averle
individuate sulla mappa, inizia il viaggio di avvicinamento del lettore. E la
prima cosa che si vede è il colore, identificativo e costitutivo di ognuna di
queste isole.
Se ci siete stati, pensateci.
La scorsa
estate, sono andata in Malesia. Ho visitato isole bellissime, con spiagge
bianche da cartolina e acque trasparenti. Magnifiche, ma sempre uguali al punto
che ogni tanto mi mancavano i colori mediterranei. Il blu cupo del Bue Marino,
diverso dal turchese di Cala Azzura a Favignana. Il bianco accecante delle case
di Stromboli, contro le spiagge di sabbia nerissima. Il verde dei filari di
Malvasia a Malfa e le morbide gradazioni beige delle falesie a Pollara.
Non a caso,
nel libro di Longo, ogni isola delle Eolie è associata a un determinato colore:
«Sappiate che le Eolie si sono spartite i
colori. Stromboli è rossa come i lapilli, Panarea è bianca come le case, Filicudi
è blu come il mare che le circonda, Salina è verde come i vigneti, Vulcano è
gialla come lo zolfo, Lipari è nera come l’ossidiana, Alicudi è marrone come i
suoi muli». (III, p. 64)
E così
Calaciura descrive l’atterraggio a Pantelleria:
«Eccola l’isola nera di lava, verde di
vigneti, oro di Zibibbo, gialla di zolfo venato di rosso dalla chimica
vulcanica, blu e indaco di mare. Solo l’avvicinamento vale l’intero viaggio.
Ecco lo specchio di Venere, lo chiamano u bagnu, azzurro come l’occhio di un ciclope
folle spalancato sul cielo…». (II, p. 13)
Una volta
approdati, esplorare un’isola è entrare in un mondo a sé, dove non vale più la rigida
contingenza dell’hic et nunc. Le
isole sono esse stesse un perenne cortociruito tra passato e presente, la terra
continuamente racconta la propria storia millenaria:
«Così è Pantelleria, l’isola che prima non
c’era e adesso c’è: archeologia, storia, natura sono a vista, a portata di
mano. Fruibili, si dice, quasi un invito ad approfittarne, a giocare con ciclo illusorio
ma concreto della vita e della morte, della conquista breve e della caduta
improvvisa». (II, pp. 25-26)
«Le pietre di Pantelleria sono il nodo
cruciale della cultura dell’isola, rappresentano quanto ha saputo fare la
natura e quello che ha costruito l’uomo». (II, p. 31)
Silenzio e ventu, architetture di sacralità
agricola che sembrano antiche come la pietra, chiese edificate quando ancora
Dio faceva il contadino a Pantelleria, il bracciante forse in una garca a
Cufirà, forse a Monastero, e divideva la lava dalla terra». (II, p. 89)
«L’area frastagliata di questo altopiano
corrisponde al sito di un insediamento del 1400 ac. Vuol dire che
tremilacinquecento anni fa c’era gente qui e il mare sbattacchiava esattamente
come adesso». (III, p.35)
«Le Eolie inducono a sbalzi temporali continui
e impressionanti […] si viene sempre riportati indietro lungo tempi geologici,
all’età degli sconquassi. Fuori dal finestrino, isole che prima non esistevano
vengono fuori all’improvviso». (III, p. 69)
«Lipari, come tutte le Eolie è fuori dal
tempo. Nel cielo potrebbero passare uno pterodattilo o una mongolfiera e
nessuno batterebbe ciglio». (III, p. 104)
«Si rischia di credere che viaggiare per le
Eolie voglia dire semplicemente salire su una macchina del tempo e poi
lasciarsi sballottare dalle epoche». (III, p.85)
Come se il
loro essere racchiuse in sé stesse, avesse provocato in queste isole un Big
Bang al contrario che ricondensa elementi opposti, il superamento degli
insanabili dualismi della materia terrestre:
«Pantelleria è diversa da tutte le altre per
conformazione e sentimento, isola di magnetismi di poli opposti che si
respingono, si attraggono, la mantengono galleggiante. Contraddizioni
palpabili, a volte sino al rifiuto». (II, p. 18)
Se la terra,
nella sua estrema concentrazione rimescola le epoche storiche, il mare dalla
parte opposta annulla le distanze, rimescola le geografie. Le Eolie sono
Norvegia e Sud America al tempo stesso:
«E la prima volta che alle Eolie percepisco, e
vedo, un villaggio di pescatori. Ci sono tre cose che marchiano chiaramente i
villaggi dei pescatori, specialmente in Scandinavia». (III, p. 47).
«Non abbiate paura di sentire i passi dei Maya
o degli Inca, forti come i passi che sentiva Adamo quando Dio passeggiava nel
giardino dell’Eden […] Ci si sente come a Finisterre, sul vulcano di Salina si
vive un angolo di Polinesi, trapiantato nel cuore di un’isola mediterranea.
Potrete incontrare missionari, nuove specie di animali, villaggi sepolti nella
vegetazione». (III, p.80).
Calaciura
richiama il realismo magico di Gabriel Garcia Marquez. Allo scrittore, che
approdò a Pantelleria nel luglio del ’69, «l’isola
sembrò senza equivoci Macondo, con l’aggravante di essere circondata dalle
acque»:
«Avvertì il senso precario dei destini
vulcanici, la parabola geografica e liquida di magma e acqua salata […] e si
sentì definitivamente intrappolato nella geografia fantastica che lui stesso
aveva immaginato». (II, p. 64)
Gli autori
usano la loro scrittura per rielaborare i dati storici e scientifici in loro
possesso. È un processo di mitopoiesi,
che toglie alle isole la loro specificità terrena:
«Le
isole sono delle metafore […]
sono sempre paesaggi interiori, sono sempre stati d’animo pietrificati». (III,
p. 117)
«Anche noi signorina, ogni tanto in
navigazione scorgiamo a pelo d’acqua un riflesso di città sommerse e terre del
sottomare coltivate a filari, rovine puniche, tombe prestoriche. Ma solo per un
attimo, un incantesimo di Circe che
proprio qui, forse nella grotta di Satarìa, tendeva agguati d’amore a marinai
odissei». (II, p.8)
La scrittura
è quest’incantesimo di Circe che ci incanta e sublima le isole in atopie: letteralmente “qualcosa che ci
spiazza”, che dis-loca il nostro io, spostando sempre un po’ più in là i nostri
limiti.
«Pantelleria è bellezza. Esuberante di venti,
di mare, di odori. Di vulcano […]. È un confine non solo geografico, è una
frontiera che ci accoglie, è un luogo che ci ricorda quanto sia fragile e al
tempo stesso eccezionale la condizione umana».
Cosa c’è di
più umano di questo?
Di un uomo -
da Ulisse in poi – che teme eppur desidera andare oltre i confini di ciò che
vede.
Le isole,
circondate come sono dal mare, allargano i nostri orizzonti. Ci insegnano a
tenderci verso nuovi approdi, nuovi viaggi, nuovi scoperte.
Come
l’amore, ci parlano di una dimensione dell’essere che non avevamo presente.
«Lascerete
spontaneamente le vostre coperte un giorno, senza accorgervene, sulla banchina
di un porto, o sulla cima di un cratere. Vorrà dire che vi sentirete sicuri di
poter affrontare le isole da soli. A quel punto il viaggio interiore è finito. Gettate pure l’ancora»