martedì 11 settembre 2018

La felicità - dei numeri primi.


E’ stato un weekend particolare per me. Ha inaugurato il conto alla rovescia all’ultimo mese prima dei fatidici trent’anni e segnato il passo con la prima notte in un posto di nuovo mio, dove poter riaprire gli undici scatoloni di libri e trovare un angolo soleggiato per le foglie del bonsai Mario-san – per ora mi basta così.

Sabato pomeriggio la mia amica Elena mi ha invitato ad accompagnarla a fare un video per il “Tempo delleDonne” del Corriere della Sera.  Il tema era “Felicità è fare il lavoro che ci piace?”

 Ho girato la domanda ad un’altra Elena, che nel giro di due secondi ha subito risposto: “Non solo. È essere ciò che sei: il lavoro può permettertelo oppure negartelo - “così come il rapporto di coppia” – ha aggiunto, visto che sì, mi conosce così bene da potersi permettere pure questa postilla.

Svuotando il mio vecchio appartamento, ho ritrovato due articoli che avevo ritagliato e messo da parte nella cesta dei giornali. Il primo è un editoriale di Gramellini, che commentava le domande dei test Invalsi nelle scuole elementari.  Sono stata una bambina fortunata: a dieci anni i miei genitori mi hanno lasciato libera di scrivere poesie, e insegnato ad amare le montagne. Credo che all’epoca volessi fare la cuoca scrittrice o qualcosa del genere.

Per quei curiosi sistemi di puntini che - briciole di Pollicino-  sembrano ricollegarci i percorsi delle nostre vite, l’articolo è datato domenica 12 maggio, che è stato in una vita intera –professionale e personale- il giorno più agli antipodi rispetto a quello che sognava la me decenne sdraiata a leggere a pancia in giù.
 O forse, paradossalmente, quello più vicino, in cui ho deciso di cercare che cosa vorrei essere e ancora non sono, per dirlo con le parole del secondo articolo della cesta, una riflessione sulle gerarchie e i modelli fissi del pensiero. Parte da Alcibiade e ci riporta all’elemento fondamentale di questa quete: il coraggio

Cerchiamo quello che ci manca per essere noi stessi. Capire chi siamo, quale è il nostro posto nel mondo, e il senso che vorremo dare alla nostra esistenza: lì è il desiderio profondo. Per questo il coraggio è così importante: ci vuole coraggio per cercare sé stessi, riconoscendosi nei propri limiti e difetti.

Quando dopo sei anni quest’inverno ho cambiato lavoro la stragrande maggioranza delle persone mi ha augurato “buona fortuna”. Decisamente, non ne ho avuta. Non solo non si è realizzata nessuna delle mie aspettative, ma mi sono trovata a lavorare in un mo(n)do che per me è quanto di più infelice ci possa essere. Preferisco ragionare nell’ottica del cambiamento, non della fortuna, come un grandangolo che abbia ampliato la visione, angoli d’ombra inclusi.

È stato imparare a gestire i fallimenti e le cose che non vanno precise, filate, perfette come vorremmo, anzi. Nessun cambiamento è isolato e neutrale, e senza quello non ne sarebbero venuti altri.  I francesi come formula d’augurio dicono “bon courage”: ogni cambiamento è un piccolo, grande atto di quel coraggio che punta –dovrebbe, almeno – alla felicità. 

Per me “coraggioso” è un aggettivo nuovo: non me lo ero mai concesso, neanche avevo mai pensato in qualche modo mi competesse. E’ arrivato la sera di inizio agosto in cui sono salita sulla terrazza della mia casetta di Malfa.  Scendeva la luce sulle falesie, lo Stromboli di fronte sfumacchiava, la nave cisterna stava gettando l’ancora a Scalo Galera. “Sei stata coraggiosa” - me lo sono detta tutto - all’improvviso.

C’è una differenza abissale tra il sentirsi soli e lo stare da soli: ci si può sentire soli anche in una coppia, in un gruppo, in una folla. Ci si sente soli se ci si sente – o ci si fa sentire - diversi.  
Stare da soli, invece, è il coraggio di imparare a declinarsi nel singolare nella propria unicità. Credo nella solitudine dei numeri primi, il custodire dentro un qualcosa forte abbastanza da essere divisibile solo per se stesso, aperto alla bellezza del mondo, ma che dal mondo non si lascia scindere.
Credo nei pezzi scompagnati, nelle serie che non tornano. 
 
 Ognuno singolarmente preso, dal piccolo angolo di spazio e di tempo che occupa, con le sue qualità e i suoi limiti: in fondo davanti alle sfide della vita, siamo allo stesso tempo uguali e diversi. Incompleti, tutti desideriamo: cerchiamo le stesse cose, un angolo di felicità; ma ognuno a modo proprio. Così, se vorremo evitare gli errori di Alcibiade - cedendo alle sirene dell’omologazione e del conformismo, condannandoci a una vita che non è nostra- dovremo prima di tutto imparare a riconoscerci nella nostra unicità e nelle nostre imperfezioni, il che a volte significa solitudine e a volte è la premessa per una comunanza più piena con chi ci sta intorno. Serve ai filosofi il coraggio, ma anche a tutti gli altri.

 
 
LINK AGLI ARTICOLI:
  • Il bambino azienda - M. Gramellini 12/05/2018
  • Il secondo articolo, dalla Lettura del 29/04/2018 è disponibile solo a pagamento su PressReader: qui