lunedì 4 ottobre 2021

I-sola


Ho riletto, nelle scorse settimane, un mio pezzo di  tre anni fa  sullo stare da soli.
Mancava poco al mio trentesimo compleanno, come oggi conto una manciata di giorni al fatidico dica- trentatrè, che coinciderà anche con uno degli eventi più impegnativi della mia carriera lavorativa.


Allora avevo scritto di una solitudine cosi  nuova e cristallina, - in un certo senso intonsa, la stanza vuota solo per me e il Bonsai Mario, le pareti bianche dopo il mio muro azzurro pantone firmato.
A rileggerlo ora direi la stessa spavalderia di quando mi è caduto un disco da 20 kg dritto sul piede  e  ho continuato ad allenarmi imperterrita “tanto non è niente è la botta”. E poi sono andata in ufficio in bicicletta, e poi una manciata di ore dopo in ufficio ci piangevo, chiusa nel bagno con il piede dentro la borsa del ghiaccio  sintetico.  Ecco, alla Giulia baldanzosa quasi trentenne direi che sì, non è tanto la botta quanto  la frantumante onda d’urto dei bilanci, delle stanchezze, delle nostalgie. 

Lo stare da soli di cui posso scrivere ora è  più sedimentato, più vissuto, più zozzo – sangue e terra, come gli altri.


Sono stata da sola a un matrimonio,  dove tutti gli invitati erano coppie e/o famiglie: il mondo overtrentenne perfettamente divisibile per due – gli uomini che all’open bar ordinano due cocktail,  le donne con le giacche dei compagni sulle spalle, le scarpe di ricambio in macchina insieme ai passeggini pieghevoli;  quelli già sposati, quelli che-si-devono-sposare,  quelle che si piazzano in prima fila al lancio del bouqet, la pastasciuttina al pomodoro del menu bambini, su tutto il noi come pronome personale dominante.

Sono stata  da sola in un resort cinque stelle immerso nella campagna siciliana,  con  il voucher per il massaggio di coppia e il maître al quale, al momento di ordinare qualsiasi pasto ho dovuto ripetere con garbo che “sì, tolga pure l’altro coperto”.

Sono stata da sola su un’isola – avevo affittato un appartamento distante sessantadue passi dal mare, c’erano le barche in secca sull’uscio – e  la padrona di casa mica si fidava che non ci fosse nessuno con me, e quando le ho restituito le chiavi ha fatto un giro un po’ sospettoso  lasciandosi sfuggire  a mezza bocca un “allora è vero”.

Sono stata  da sola su un’altra isola, per la prima notte delle mie improvvisatissime vacanze:  ho dormito su un vecchio terrazzo, nel sacco a pelo. Arrivavo  stremata da un luglio pesante come un macigno e da una serie di notti insonni consecutive, volevo solo silenzio e il cielo stellato di una manciata di strade senza corrente elettrica.  Nel cuore della notte si è alzato il meltemi ed è accaduto l’inaccadibile: ha iniziato a piovere. Il 10 di agosto, a Skinoussa, dove non vedevano la pioggia da otto mesi. Ero rannicchiata nel mio sacco a pelo blu,  sul materasso pieno di polvere e di salsedine,  con il vento sferzante e la pioggerellina tutto intorno e quello  starmene li,  quel ripararmi era la catarsi,  il più esatto correlativo oggettivo  alla domanda. Come vivi ora.


A volte, a Milano, mi sembra di confrontarmi continuamente con il mito forse caricaturale (o forse invece no) dell’hyperumano hyperfficiente, incluso il clichè del/la rampante single che fai i meeting di giorno e macina Tinder dates la sera, o  forse  le vite stesse sembrano un cortocircuito Tinder,  a swipare  per il the next  [vale, parimenti, per  i vestiti, i locali, le persone]. Come se tra le pagine Instagram piene di poltroncine di velluto e rifiniture ottone, il tonno tataki e le brioches laminate, l’armocromia,  il microblanding  alle sopracciglia e i manuali sul closet organizing che “mi ha svoltato la vita”, l’ultimo vero tabù sia rimasta l’ammissione di dolore, di difficoltà, di solitudine.


Nel mio vecchio post pensavo che la più grande concessione  che potessi farmi fosse dirmi “sono brava”; ho imparato - sto imparando – a dire anche che sono stanca, che ho paura. Superman is not easy, e parafrasando l’amico suo Spiderman direi che da una grande libertà deriva una grande responsabilità: stare da soli è libertà, la più grande: continuare a  ri-conoscersi, la più grande responsabilità.
In quel RI c’è tutto il continuum aperto dei nostri goffi tentativi empirici: anche io ho i miei taxi nel cuore della notte da case in cui non volevo stare, gli acquisti compulsivi di vestiti sbagliati, i pianti a capodanno, ho preparato la pasta di curcuma per il golden milk la mattina,  bruciato e incenso e palo santo e salvia bianca, mi sono iscritta quasi in contemporanea a Tinder e Bikram yoga (esperienze opposte e complementari di cui vorrei ugualmente poter fare un compiuto report à la DFW, che non so se siano peggio le chat  “ke fai?” alle 07.55 del mattino o  il progressivo  snudamento e sudamento di corpi d’ogni specie e fattezza in uno stanzone d’indistinguibile  umidità e odori  - che ne sanno i cinesi, laggiù  a Wuhan). 


Ma siamo di sangue, come il nostro sangue ci regola il principio dell’osmosi: i misteriosi e a volte caotici flussi che ad un certo punto conducono in un là dove stare bene, l’imprevedibile gioco di prestigio – un anagramma, la sostituzione occulta di una vocale – il caos può portare a casa.


La vita adulta, monolitica, non è compatta a priori.
E’ un esercizio di interità.
La parola esercizio implica questa componente di fatica, di impegno.
Sono io, sono me. È  un esercizio di coerenza.
 Indipendentemente-da-tutto-il-resto o sticazzi, nella sublime valenza romana del termine.
 
Non è facile, non è scontato riuscirci-sempre-cosi-bene.


E’ un esercizio di cura, come apparecchiare la tavola per uno, come tostare piano il pane la mattina, come conoscere le stagioni dei fiori.
E’ un esercizio di chirurgia, accadono incontri che le trovano, le cicatrici.
E’ un esercizio di compattezza, nel goretex sotto la pioggia, o in un abito di seta in coda all’open bar.
(O addormentarti dall’altro lato del letto, o  lavare in denti in un lavandino che non è il tuo)
E’ un esercizio di resistenza, può piovere – anche alle piccole Cicladi, d’agosto.
Puoi correre al buio. Invecchi, ogni mattina ti si stropiccia un pochino di più la faccia.
Puoi svegliarti prima di tutti, senza svegliare nessuno, la ragazza mezza camicia da notte mezza giacca a vento su e giù per i sentieri, a seguire gli asinelli, a spiare le case dietro i muretti – scendere al mare.
 
Sessantadue passi, più o meno.
Ci sono un pescatore, due bambini con un secchiello di plastica rossa.

“Se vuoi puoi raccogliere gli stessi vuoti con me