Ho riletto, nelle scorse settimane, un mio pezzo di tre anni fa sullo stare da soli.
Mancava poco al mio trentesimo compleanno, come oggi conto una manciata di giorni al fatidico dica- trentatrè, che coinciderà anche con uno degli eventi più impegnativi della mia carriera lavorativa.
Allora avevo
scritto di una solitudine cosi nuova e
cristallina, - in un certo senso intonsa, la stanza vuota solo per me e il
Bonsai Mario, le pareti bianche dopo il mio muro azzurro pantone firmato.
A rileggerlo
ora direi la stessa spavalderia di quando mi è caduto un disco da 20 kg dritto
sul piede e ho continuato ad allenarmi imperterrita “tanto non è niente è la botta”. E poi sono andata in ufficio in bicicletta, e poi una manciata di ore dopo in ufficio ci
piangevo, chiusa nel bagno con il piede dentro la borsa del ghiaccio sintetico.
Ecco, alla Giulia baldanzosa quasi trentenne direi che sì, non è tanto
la botta quanto la frantumante onda d’urto dei bilanci, delle stanchezze, delle
nostalgie.
Lo stare da soli di cui posso scrivere ora è più sedimentato, più vissuto, più zozzo – sangue e terra, come gli altri.
Sono stata da sola a un matrimonio, dove tutti gli invitati erano coppie e/o famiglie: il mondo overtrentenne perfettamente divisibile
per due – gli uomini che all’open bar ordinano
due cocktail, le donne con le giacche
dei compagni sulle spalle, le scarpe di ricambio in macchina insieme ai
passeggini pieghevoli; quelli già
sposati, quelli che-si-devono-sposare,
quelle che si piazzano in prima fila al lancio del bouqet, la
pastasciuttina al pomodoro del menu bambini, su tutto il noi come pronome
personale dominante.
Sono stata da sola in un resort cinque stelle immerso nella campagna siciliana, con il voucher per il massaggio di coppia e il maître al quale, al momento di ordinare qualsiasi pasto ho dovuto ripetere con garbo che “sì, tolga pure l’altro coperto”.
Sono stata da sola su un’isola – avevo affittato un appartamento distante sessantadue passi dal mare, c’erano le barche in secca sull’uscio – e la padrona di casa mica si fidava che non ci fosse nessuno con me, e quando le ho restituito le chiavi ha fatto un giro un po’ sospettoso lasciandosi sfuggire a mezza bocca un “allora è vero”.
Sono stata da sola su un’altra isola, per la prima notte delle mie improvvisatissime vacanze: ho dormito su un vecchio terrazzo, nel sacco a pelo. Arrivavo stremata da un luglio pesante come un macigno e da una serie di notti insonni consecutive, volevo solo silenzio e il cielo stellato di una manciata di strade senza corrente elettrica. Nel cuore della notte si è alzato il meltemi ed è accaduto l’inaccadibile: ha iniziato a piovere. Il 10 di agosto, a Skinoussa, dove non vedevano la pioggia da otto mesi. Ero rannicchiata nel mio sacco a pelo blu, sul materasso pieno di polvere e di salsedine, con il vento sferzante e la pioggerellina tutto intorno e quello starmene li, quel ripararmi era la catarsi, il più esatto correlativo oggettivo alla domanda. Come vivi ora.
A volte, a
Milano, mi sembra di confrontarmi continuamente con il mito forse caricaturale
(o forse invece no) dell’hyperumano hyperfficiente,
incluso il clichè del/la rampante single che fai i meeting di giorno e macina
Tinder dates la sera, o forse
le vite stesse sembrano un cortocircuito Tinder, a swipare per il the
next [vale, parimenti, per i vestiti, i locali, le persone]. Come se tra
le pagine Instagram piene di poltroncine di velluto e rifiniture ottone, il
tonno tataki e le brioches laminate, l’armocromia, il microblanding alle sopracciglia e i manuali sul closet organizing che “mi ha svoltato la
vita”, l’ultimo vero tabù sia rimasta
l’ammissione di dolore, di difficoltà, di solitudine.
Nel mio vecchio post pensavo che la più grande
concessione che potessi farmi fosse dirmi
“sono brava”; ho imparato - sto imparando – a dire anche che sono stanca, che
ho paura. Superman is not easy, e
parafrasando l’amico suo Spiderman direi che da una grande libertà deriva una
grande responsabilità: stare da soli è libertà, la più grande: continuare
a ri-conoscersi, la più grande
responsabilità.
In quel RI c’è
tutto il continuum aperto dei nostri
goffi tentativi empirici: anche io ho i miei taxi nel cuore della notte da case
in cui non volevo stare, gli acquisti compulsivi di vestiti sbagliati, i pianti
a capodanno, ho preparato la pasta di curcuma per il golden milk la
mattina, bruciato e incenso e palo santo
e salvia bianca, mi sono iscritta quasi in contemporanea a Tinder e Bikram yoga
(esperienze opposte e complementari di cui vorrei ugualmente poter fare un
compiuto report à la DFW, che non so se siano peggio le chat “ke fai?” alle 07.55 del mattino o il progressivo snudamento e sudamento di corpi d’ogni specie
e fattezza in uno stanzone d’indistinguibile umidità e odori - che ne sanno i cinesi, laggiù a Wuhan).
Ma siamo di
sangue, come il nostro sangue ci regola il principio dell’osmosi: i misteriosi
e a volte caotici flussi che ad un certo punto conducono in un là dove stare
bene, l’imprevedibile gioco di prestigio – un anagramma, la sostituzione
occulta di una vocale – il caos può portare a casa.
La vita adulta, monolitica, non è compatta a
priori.
E’ un esercizio di interità.
Indipendentemente-da-tutto-il-resto o sticazzi, nella sublime valenza romana
del termine.
E’ un esercizio di cura, come apparecchiare la
tavola per uno, come tostare piano il pane la mattina, come conoscere le
stagioni dei fiori.
E’ un esercizio di chirurgia, accadono incontri che
le trovano, le cicatrici.
E’ un esercizio di compattezza, nel goretex sotto
la pioggia, o in un abito di seta in coda all’open bar.
(O addormentarti dall’altro lato del letto, o lavare in denti in un lavandino che non è il
tuo)
E’ un esercizio di resistenza, può piovere – anche
alle piccole Cicladi, d’agosto.
Puoi correre al buio. Invecchi, ogni mattina ti si
stropiccia un pochino di più la faccia.
Puoi svegliarti prima di tutti, senza svegliare nessuno,
la ragazza mezza camicia da notte mezza giacca a vento su e giù per i sentieri,
a seguire gli asinelli, a spiare le case dietro i muretti – scendere al mare.
Ci sono un pescatore, due bambini con un secchiello
di plastica rossa.
“Se vuoi puoi raccogliere gli stessi vuoti con me”