C’è questa foto che è una delle preferite di sempre. Non so
esattamente quanti anni siano passati da allora: credo che mia madre avesse più
o meno la mia età, i trentanni erano un giorno lontano, nel gioco dell’immagina quando.
Quel quando poi è arrivato, io mi vesto ancora di bianco e
blu, ho il caschetto spettinato, lo
stesso colore di capelli che si schiarisce al primo sole. Quando sono felice sorrido - mai
del tutto , un po’ mi imbarazza. Una volta mi hanno detto che però se rido gli occhi mi diventano verdi più
verdi, penso sempre a quella foto lì.
E’ successa questa cosa che i trentanni – cifra tonda tutta attaccata – sono stati i più faticosi
e difficili della mia vita. L'8 ottobre 2018 ero su un’isola a festeggiarli, ero isola io stessa mentre mettevo la moka sul fuoco nel cucinino del dammuso, tutto intorno solo mare,
vento, silenzio.
Se penso alla mia
vita dei mesi che sono venuti dopo non riesco a ricordarla, unisco alcuni strappi sconnessi: ho
fatto un intero inverno con due jeans e due maglioni, l’unico orizzonte era il cerchio tondo di
cielo sopra Gae Aulenti la mattina prestissimo, quando scendevo dalla
metropolitana per andare a sigillarmi in ufficio. Mi ricordo in pigiama attaccata al pc in una cucina di Berlino, mentre i miei amici Erasmus festeggiavano, le lacrime soffocate cercando di addormentarmi a Capodanno.
Te l’avranno insegnato a scuola “rompere il vetro in caso di
emergenza”: il rischio di tagliarsi, pur
di aprirsi una via di fuga. Un lunedì sera ho dato le dimissioni: era gennaio, fuori già buio pesto, è stato il
primo punto di rottura.
Il resto non so come
sia successo, quando sia implosa quella barriera di cristallo che avevo
eretto –protezione/prigione: c’è
tutto un mondo che mi è tornato indietro, un flusso inatteso di luoghi
abitudini sapori persone che a un certo punto sono entrate nella mia vita
(o forse sarebbe meglio dire ho finalmente lasciato entrare). Ho riscritto una nuova topografia di affetti, allargato confini, ridefinito contorni. Ho comprato una bici nera con i
freni a bacchetta che è identica a quella degli anni di università, come allora ho il cestino perennemente storto
e io sono comunque perennemente in ritardo. I tic da sciura di Brera, i fiori a San Marco, la classifica dei cappuccini, la discesa a rotta di collo giù dai bastioni di Porta Venezia. C’è Nick che è casa lontano da
casa.
Ci sono la Vero, Marta, Ele, Ale che sono il sorriso delle mattine
lavorative – e anche delle timbrature di mezzanotte e delle canzoni urlate in macchina; c’è stato un fine luglio da dieci aperitivi in dieci giorni, quelli
che profumano di litri di Autan e di promesse d'estate. Ho condiviso con Chiara
la sventura dei capelli gialli, le Gianicolate e lo spezzatino con i peperoni
più impalpabile della storia. Ho prenotato un viaggio un po’ d’azzardo in un
posto che manco sapevo pronunciare -Maranhao- e quando sono tornata a casa non ero ancora
capace, ma avevo gli occhi pieni d’azzurro e meraviglia, le compagne con cui in viaggio dividevano il
bagno in comune ora sono in cima alle chat Whatsapp. Le cose si sistemano, come
i miei capelli: quando avevo pensato di fare un cambiamento andando dal parrucchiere e mi
sono trovata con le ciocche sforbiciate e color giallo polenta. Ci hanno messo mesi a ricrescere e tornare
come erano prima - Nick mi aspettava fuori dal parrucchiere e abbiamo fatto il primo pranzo di primavera in cortile da Giacomo per festeggiare.
C’è stata una mattina di fine agosto in cui avevo la febbre
altissima e mi sono addormentata in diagonale nel letto, io che per sei anni
filati ho dormito sempre, rigorosamente, dalla stessa parte, e fino a quel
giorno quella parte di letto non esisteva – il vuoto finchè non lo tocchi non
lo senti. Poi ci sono buttata dentro: io che riempio un altro vuoto, con me.
Non è stato facile, sono stata brava – che parolona difficile per una secchiona, due sillabe, è il
più imprevedibile atto di hybris che tu possa regalarti. Brava, non è lo stesso
di perfetta, non è superlativo, non è assoluto: implica sbavature, incertezze, accarezzare
cicatrici come le ginocchia sbucciate dell’estate in cui mi tolsi le
rotelle della bicicletta: ma avevo imparato a pedalare da sola.
Che ne sapeva la bambina sulla panchina che gli adulti sono
come il vetro: ero spezzata, avevo spezzato, si diventa duri si diventa fragili,
ci si scheggia, si va in frantumi, anche – nei cocci che in certi giorni di sole si
riflette l’arcobaleno.
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