Se è vero – come ripete sempre il mio amico Gio - che i libri ci trovano.
E’ stato un autunno difficile, a tratti ostile. Ho trovato libri
bellissimi, che – lo dice bene Concita De Gregorio nel suo ultimo editoriale su
D di repubblica – ci pensano a parlarci da amici, a riconnetterci con il noi dentro di
noi: «Come
stai, come ti senti. Chi ti senti, se riesci a dirlo».
Un autunno tremendo, dicevamo. e quasi alla fine, in una domenica di
pioggia e capelli crespi mi ha trovato un racconto di Irene Soave su l’Integrale che è, semplicemente, IL
pezzo che vorrei aver scritto io.
Perché è stato come un carotaggio, un preciso bisturi d’anima - Storie come domande, parole come risposte: specchi all’incroci che illuminano i nostri coni d’ombra.
Ho scritto (link) di una solitudine in un certo senso pura e militante: addomesticare i vuoti ma anche rifugiarcisi dentro.
“A volte vivi come un monaco guerriero” – sempre il
mio amico Gio [mentre passano gli anni, passano le città, passano troppi Campari;
mangiamo sempre allo stesso tavolino di Roscioli, ci abbracciamo con la cintura
di sicurezza e calibratissime distanze
all’ingresso di qualche metropolitana].
“Ti terrorizza il caos”.
Ecco, il pezzo della Soave è l’esatto ribaltamento – un’ammissione, la riconciliazione, l’assoluzione. Come passare la mano sul contropelo ruvido dell’esistenza: la sua protagonista potrei essere io – lo so, ma non lo so dire.
Che non ho il light charger ma metto la sveglia alle 06.15 per uscire a correre o fare i burpees o caricare 90 kg di leg press – la runner’s high, la botta di endofine finché fuori è ancora buio, e quando torno a casa c’è già la luce (è già un giorno nuovo) e a volte mi addormento con le pile di libri e gli occhiali di fianco / e che ho anche io le mie botte di solitudine e di malinconia certe domenica mattina quando non mi giro verso l’altro lato del letto /e soffio sul the bollente mentre mi vesto e mi scaglio fuori casa – colleziono ciotole scompagnate / non saprei dove apparecchiare per due.
La riconciliazione: con quello
che siamo, con quello che siamo stati:
un giorno, dal nulla, aprii sotto casa a Pavia il negozio di un anziano
panettiere greco – o forse albanese, non ricordo, chissà. Anche allora mi allenavo
prestissimo la mattina per essere alle 7 a sollevar pesi con il mio personal Alberto: quando tornavo la strada era invasa del
profumo del panettiere che sfornava certi abnormi saccottini al cioccolato,
soffici e sempre un po’ bruciaticci. Ne compravo uno come colazione per il mio
compagno – io che ero a dieta rigidissima e mangiavo 25g di fiocchi d’avena
pesati, niente pane, figuriamoci discutibile viennoiserie. Mi sembrava che la mia vita rientrasse tutta lì: nel
tiepido nitore del sacchetto antiunto che mi aveva consegnato il vecchio greco
(o forse albanese), nei gradini fatti a
due a due - un po’ stretching un po’
impazienza di entrare nel nostro fazzoletto di monolocale urlando “sveeeglia”.
(Non torno a Pavia da anni,
chissà se c’è ancora il panettiere, chissà
se l’abbiano mai segnalato all’Ufficio d’Igiene per l’incauto
maneggiamento ad un tempo solo di pane e monete).
La riconciliazione: con quello
che abbiamo provato ad essere e non siamo
stati capaci. A Milano non c’era il
panettiere sotto casa e neanche Alberto a segnarmi i massimali sul quadernetto
- si faceva il brunch il weekend, da Cascina Cuccagna, facevo finta
d’impormi d’andare ai corsi serali della Get Fit di via Piacenza.
L’ammissione: – lo dice bene, ancora, la Soave – volevi fare una rivoluzione. Far brillare, una mattina di tarda primavera,
quella vita lì, quella che tutti mi
sconsigliavano di.
La rivoluzione. (Non mi sarei più ricordata del panettiere greco, del conteggio dei pugni per il risotto, come si sale dietro in Vespa).
L’assoluzione – una lunghissima assoluzione, come il pilota
automatico, come un’apnea, come una penombra grigia. Tempo mitemente infelice, e tu sei ingrassata.
“Vivi come un monaco guerriero”
Fino alla luce dolce dei Fori – era l’estate 2020 (la più
attesa di tutte le estati), era un tramonto lunghissimo di fine luglio, l’Iphone
segnava 27k passi felici, camminavamo
senza mascherina, sembrava che il
lockdown fosse per sempre finito e
invece sarebbe tornato l’autunno: ed era appena passato il mio
compleanno, un sabato mattina su uno degli ultimissimi treni partiti da Torino
per Milano – si chiudevano le Regioni, chiudevo capitoli – tiravano come punti di sutura. Puoi ancora provare dolore.
Potere, ancora che sono poi le parole del secondo libro che mi ha trovato: Le mille luci di New York: nella prosa del suo protagonista, indolente e cocainomane - l’ho detestato per 150 pagine, ma poi sbabam arriva questo finale implacabile e dolorosissimo – arrivano le parole.
Il libri ci trovano e ci lasciano - letteralmente - briciole di Pollicino che ricongiungono le cose.
L’Integrale è una rivista sul pane.
Il monologo
finale di Mille Luci è in una
panetteria.
«Il profumo del pane fresco ti avvolge tutto […] Dovrai cercare di andare piano. Dovrai imparare tutto daccapo».
Le nostre vite sono come lo yo-yo di quando eravamo bambini: ti butti a capofitto, l’elastico ti ributta su.
Daccapo.
C’era un anziano panettiere greco – o
forse albanese, non ricordo, chissà.
C’è stato il secondo lockdown, passato
tutto a Milano. Il mondo saltava per aria tutt’intorno e
io, per la prima volta, potevo andare piano. Potevo
imparare.
Daccapo.
Ho ricominciato a correre.
Ho rifatto un burpee. Poi due, poi dieci. (Che poi anche il burpee è un ritorno, ti butti giù e confidi nella forza elastica dei muscoli per risaltare su, in piedi).
«10mila lux sulle zone fotosensibili del cervello, per fargli rilasciare noradrelina, dopamina, serotonina».
Una mattina ho comprato il pane. Mio, per me, per la prima volta in quattro anni che vivo a Milano e chissà cosa ha pensato la commessa, mentre tiravo fuori le banconote stropicciate dalle tasche della giacca a vento.
Il pane è sempre stato il cibo della vita con i miei genitori: quello di mia madre (orgogliosa e secchiona lievitomadrista di lunga data ben prima dell’era Covid), le pagnotte di segale del nostro forno preferito, a mezza montagna; i bocconcini al latte dei pranzi a casa della nonna – meravigliosa sovversiva con i manuali di Marco Bianchi allineati sulla libreria mentre friggeva due volte le cotolette nel burro.
Compravo il
pane, correvo, leggevo.
E’ sull’orlo del precipizio che l’equilibrio
è massimo – anonimo murales all’incrocio di via Caracciolo, punto fisso di
quelle mie primissime corse.
«Seduto anche in vita precaria, col sedere
sull’orlo. Sempre così – vita provvisoria»: New York, 8 novembre 1993, scrive Saul
Steinberg ad Aldo Buzzi. L’Adelphi delle Lettere
(ancora zeppo di post-it e vecchi appunti universitari) è stato il terzo libro
di quest’autunno, in contemporanea con le Mille Luci.
Apparentemente, non ci potrebbero essere due mondi più distanti, la New York andata oltre su una cometa di polvere bianca di McInerney e il Saul già anziano – che programma i suoi lasciti
«[…] Lascerò le mie carte al Smithsonian o Yale, dove una bibliotecaria, ora bambina, troverà le parole che non trovo» – dove in quel minuscolo inciso, in quella bibliotecaria ora bambina c’è tutta la sua malinconia – o balcanica - avrebbe detto – scaramanzia.
Tra tutti i
cibi menzionati nelle Lettere, il
pane ha rarissime occorrenze, e sono quelle della memoria, della nostalgia. Il daccapo, agli anni del Grillo:
«Nel 1933 – 60 anni fa – gustavo già i piaceri della solitudine e della povertà:
invece di Stilton, la Gorgonzola. Mezz’etto di Gorgonzola con un etto di burro
e quei ottimi panini di via Ampere».
O ancora più indietro, alla merenda da bambino: «Feta […] pane whole wheat [integrale] fresco, e olive nere secche. Questa era la mia merenda da bambino».
Dal principio, dal pane, dal mangiare e leccare con gesti primordiali ed istintivi in un cortocircuito scambievole umanità-feralità da «quando ero un bambino di cinque anni i cani mi leccavano il viso e mi guardavano negli occhi» alla Milano dove sono i ragazzi che mangiano il burro dalla carta come i gatti: ed è la stessa regressione che riporta al finale della Soave, le scale salite come cuccioli che si fanno le feste.
Mischiare i verbi, mischiare i gesti, ossitocina e adrenalina, annusare il pane, mangiare il burro. Un’ammissione, la riconciliazione, l’assoluzione – la liberazione: che esiste, che lo siamo, caos.
Daccapo,
sull’orlo delle nostre vite precarie – confondere cicatrici e suture.
(E poi,
come cuccioli, leccare il viso di
carezze).
BIBLIOGRAFIA
Irene Sove, Un'occasionale aurora
boreale, in Integrale. Erotica
(IV), 2021
Jay McInerney, Le mille luci di
New York, 2016 Bompiani
Saul Steinberg, Lettere a Aldo
Buzzi 1945-1999, a cura del destinatario, 2002 Adelphi
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