Ho scelto, in questo mio anno bianco, un libro pieno di corpi e di sesso.
C’è
una citazione di Calvino, probabilmente la mia preferita di sempre: Abbiamo
tutti una ferita per riscattare la quale combattiamo. Ecco qua il mondo delle
relazioni dopo i trent’anni: post pandemia e post Tinder, anche.
Siamo tutti il secondo giro di qualcuno. Abbiamo già vissuto tutte le prime volte;
abbiamo mangiato pizze nel cartone su pavimenti di salotti ancora senza tavoli,
e verniciato muri e montato mobili Ikea.
Che è poi il mondo della Sally, con i suoi personaggi deficienti
– nel senso letterale del termine, perché hanno perso o mancano sempre
di qualcosa.
[Nei giorni in cui stavo leggendo il libro - ero ad Anafi, nuotavo nuda, facevo trekking sulle montagne - ho ricevuto, inattesa, una mail che mi diceva proprio questo:
“Giulia mi manchi”
“Mancarsi, con te, è sempre stato un verbo di traiettorie, non di malinconie” – ho risposto io].
Traiettorie,
non malinconie.
Fare pace con gli sbandamenti e le incertezze – casuali, dadaiste,
bellissime.
Fare pace con la libertà, potentissima, di dire cosa voglio e che
cosa no.
A
me, ad esempio, fa rabbrividire una certa narrativa rassicurante della coppia
che fa incetta di detersivi con la Fidaty Esselunga la domenica. La mia amica Miri
mi ha descritto spesso certe pellicole sperimentali: voglio montare la
pellicola al contrario e vedere che cosa succede nell’extra ordinario, nel
margine di scarto del là dove (là come) non avremmo mai pensato.
C’è
stata una domenica – la prima di dicembre – in cui ho mangiato un gelato. C’era
un sole pallidissimo, faceva già freddo, e io ero seduta su una panchina, con il
cappello di lana, il maglione pesante e un cono al pistacchio e cioccolato fondente.
Leccare un gelato – in qualche modo
ingannare l’inverno, mentre tutto intorno lo è già, inverno.
Facciamo
quello che vogliamo.
Come
l’arte Gutai: il gesto sublime di lanciare la bottiglia delle storie senza
sapere precisamente dove e come vanno a finire, il balzo di Murakami attraverso
la carta da pacchi senza che conti né il prima né il dopo: importa il balzo
stesso, la sollecitazione della materia che comincia a raccontare la sua storia.
Saltare dentro il foglio, strappare i cieli di carta. Che sia
questa – pensavo – l’ultima stanza illuminata?
Non un luogo, ma un atto. Un atto di imprevista, sublime, insensata bellezza.
Allora dovresti venire, disse lei.
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